Negli ultimi dieci anni, la Spagna è diventata una formidabile cartina di tornasole per valutare le ambizioni e il grado di evoluzione di tante Nazionali grandi, piccole e minime. Da queste parti amiamo ricordare l'impresa del 2016, quando l'ottimismo della volontà di Antonio Conte riuscì a portare De Sciglio, Pellé e Giaccherini oltre Iniesta, Busquets e Sergio Ramos; oppure la semifinale del 2021, quando con applicazione e un pizzico di fortuna l'Italia di Mancini riuscì a snaturare felicemente sé stessa per approdare alla finale di Wembley. Ma snaturarsi è un'arte, richiede l'intelligenza dell'adattamento e l'umiltà di riconoscere i propri limiti: è un pensiero che deve nascere direttamente dal commissario tecnico – altrimenti si corrono pericoli già noti alla Nazionale, che in questi ultimi anni è stata capace di dimostrate tutto e il contrario di tutto.

 

Decida ora Luciano Spalletti che commissario tecnico vuole essere. Se mantenersi ferocemente attaccato ai propri princìpi, ben sapendo che il materiale umano a disposizione non gli consente di applicarli fino in fondo – ieri sera ne abbiamo avuto una dimostrazione spettacolare. Oppure fare di necessità virtù, ma fare semplicemente il lavoro che hanno sempre fatto tutti i migliori ct: modellarsi in base all'avversario e soprattutto riconoscere quando un avversario è più forte e trovare in quell'inferiorità di partenza la chiave e il gusto di batterli, batterli e batterli ancora. Erano più forti il Brasile nel 1982, l'Olanda nel 2000 e la Germania nel 2012, tutte superate sfruttando le infinite pieghe tattiche ed emotive che questo sport ha da offrirci.