Cosa c’è dietro un successo olimpico? Quanto sudore e passione servono per raggiungere una medaglia? Tanto, sicuramente, ma che ruolo gioca la fortuna? I risultati, a volte, non rendono giustizia agli uomini e le donne che si sfidano per elevare se stessi, per conquistare il gradino più alto non solo della propria carriera, ma della loro vita. Dopotutto, a voler fare i filosofi, lo sport non è altro che una rappresentazione imperfetta dell’esistenza stessa. Mesi, anni di allenamento che si riducono a un minuto che può essere di gloria o lacrime.  

 

È stato così per Steven Bradbury, ex pattinatore australiano che nel 2002 ha conquistato l’oro più famoso del web, anche se probabilmente per i motivi sbagliati. La foto del suo trionfo, con tre avversari a terra dietro di lui, è diventata la base per uno dei meme più diffusi di internet, ma in realtà, a leggere la sua storia, dietro quel risultato c’è molto di più.  

 

Quella vittoria, la più prestigiosa possibile per un atleta olimpico, è infatti soltanto una parentesi all’interno della straordinaria vita di Bradbury, fatta di drammi sportivi superati da un uomo che non ha mai rinunciato a se stesso. E quindi se lo sport è una rappresentazione imperfetta della vita, possiamo dire che lo sono ancora di più i suoi protagonisti. “Non ero certamente il più veloce, ma non penso di aver vinto la medaglia col minuto e mezzo della gara”, ha detto tempo dopo Bradbury, “l'ho vinta dopo un decennio di calvario”.  

 

Le Olimpiadi invernali di Salt Lake sono state delle vere e proprie sliding doors per l’australiano, che quel giorno ha acquisito fama, ricchezza e fortuna, come ammesso dallo stesso pattinatore: “Mi sono sempre allenato fino allo sfinimento, ho partecipato a quattro Olimpiadi ma non ho mai guadagnato un centesimo da questo sport. Ho sempre vissuto con pochi soldi e non ne avevo abbastanza nemmeno per riparare la mia macchina, prima delle Olimpiadi di Salt Lake”. Ora anche le nuove generazioni di nativi digitali lo conoscono e ammirano, anche se per i motivi sbagliati.  

 

La vera storia del pattinatore Steven Bradbury

 

“La storia dietro al meme”. Potrebbe intitolarsi così l’autobiografia di Steven Bradbury, che in realtà ha già prestato la sua vita per un romanzo e un film. La sua storia non si racchiude infatti in un minuto, diciannove secondi e 109 centesimi, ovvero il tempo con cui ha conquistato l’oro negli Stati Uniti. Equilibrio e coordinazione, le basi per intraprendere una carriera nel pattinaggio, si mostrano fin da piccolo a cui poi, nel tempo, si aggiunge la sfrontatezza, fondamentale per vincere e affacciarsi ad alti livelli. A Sidney, Steven, classe 1973, si appassiona alla velocità e decide di diventare un pattinatore professionista. A 18 anni si presenta ai Campionati Mondiali di Short track che si disputano proprio nella sua città. Gareggia sui 5000 metri e partecipa alla staffetta, vincendo la medaglia d'oro. Era il 1991, e da lì inizia la sua ascesa. Sempre nella staffetta vincerà il bronzo a Pechino nel 1993, l'argento al Mondiale di Guildford nel 1994, anno in cui conquista un altro terzo posto ai Giochi olimpici di Lillehammer.  

 

Le delusioni però arrivano dalla gara individuale, dove Bradbury arriva ottavo e promette a sé stesso di riprovarci. L’occasione arriva ai Mondiali di Montreal, ma le cose non vanno come previsto, anzi. Durante un allenamento si sfiora la tragedia. L’australiano si scontra con un avversario, che cadendo gli pianta la lama dei pattini nella gamba. L’incidente è grave: Bradbury si taglia l’arteria femorale, perdendo più di quattro litri di sangue. In ospedale lotta tra la vita e la morte, ma alla fine riesce a riprendersi.  

 

La riabilitazione, ovviamente, richiede diverso tempo: diciotto mesi trascorsi a ridare tonicità alla gamba, a trovare nuovi equilibri, ristabilire la reattività di muscoli e una rinnovata confidenza con il proprio corpo. A 22 anni quegli 11 punti sulla gamba potrebbero comprometterne definitivamente la carriera, eppure torna sul ghiaccio e riesce a rimanere, complice anche la mancanza di una vera concorrenza, nel giro della Nazionale.  

 

Nel 1998 torna a gareggiare alle Olimpiadi, arrivando ottavo in staffetta, diciannovesimo sui 500 metri e infine ventunesimo sui 1000. È evidente che la gamba non risponde più come prima, ma Bradbury rimane uno dei migliori del suo Paese nella disciplina e punta dritto allo short track del 2002. Nel 2000 subisce un altro grave infortunio in allenamento, fratturandosi due vertebre vicino al collo. Sei mesi con un collare ortopedico sono però sufficienti per tornare in pista e qualificarsi ai Giochi americani.  

 

L’incredibile finale del 2002: Steven Bradbury nella leggenda

 

A Salt Lake City, Steven gareggia in due specialità: i 1500 e i 1000 metri individuali. Non è tra i favoriti e lui lo sa. Sul ghiaccio ci sono l’astro nascente del pattinaggio mondiale Apolo Ohno e Marc Gagnon, il “cannibale” degli anni 90. Bradbury supera a fatica i primi turni, accede alla semifinale proprio grazie alla squalifica del canadese e infine riesce a qualificarsi per la finale. Il 16 febbraio 2002 è ancora oggi uno dei giorni più assurdi e iconici della storia delle Olimpiadi. Bradbury accumula un ritardo importante dal gruppo di testa fin dal via, rassegnandosi a un arrivo a metà classifica.  

 

Poi però, accade l’impensabile: il cinese Li Jiajun perde aderenza e cade, mentre scivola sul ghiaccio trascina con sè tutti gli altri atleti che stavano lottando per le medaglie, creando un domino che, paradossalmente, favorisce chi aveva accumulato ritardo dagli apripista. È stata questa l’arma vincente di Bradbury, che alza le braccia al cielo regalando per la prima volta un oro all’Australia nel pattinaggio. “Mi piace guardare la caduta degli altri”, ha ammesso sorridendo, “so perfettamente di essere probabilmente la medaglia d'oro olimpica più fortunata della storia ma questo non cambia il fatto che sono stato io a capitalizzare quando tutti hanno commesso degli errori". Quella fu l’ultima gara della sua carriera, il ritiro più dolce che un atleta possa sognare.