La politica di Maradona: da Fidel Castro alla guerra alla FIFA
Forse per parlare della politica secondo Diego Armando Maradona si può partire da una sua frase celebre: “Io sono sinistro, tutto sinistro: di piede, di fede, di cervello”. Descrivere tutta una parabola rivoluzionaria nel midollo, quella del campione più forte di tutti i tempi che va sul palco e parla contro Bush, litiga con il Papa Giovanni Paolo II per i tetti d’oro in Vaticano (“Sì, ho litigato col Papa. Ci ho litigato perché sono stato in Vaticano, e ho visto i tetti d’oro, e dopo ho sentito il Papa dire che la Chiesa si preoccupava dei bambini poveri. Allora venditi il tetto amigo, fai qualcosa!”) e si tuffa in una piscina olimpionica gridando “Amo Cuba”, è complesso, articolato. Non basterebbe un’enciclopedia.
Tutta la vita di Maradona in qualche modo è una rivoluzione, calcistica, umana, “politica”. Dal tatuaggio enorme di Ernesto “Che” Guevara sul braccio, suo idolo e nume tutelare, fino ad una foto iconica con Fidel Castro che gli sistema sul capo il suo famoso berretto, tutta la vita di Maradona è un immenso dribbling al potere, al sistema, con cadute e falli dei boss della droga, forse unico capitalismo che non è mai riuscito davvero a combattere.
La politica secondo Maradona: Fidel Castro
Curioso, come solo il fato sa essere, che Maradona sia scomparso il 25 novembre, come una delle figure più importanti della sua parabola politica, il padre della rivoluzione cubana Fidel Castro. Lasciamo che sia Diego stesso a parlare del loro rapporto, in un’intervista: “È stato come un secondo padre. Mi ha aperto le porte di Cuba quando in Argentina molte cliniche non mi volevano. Ho avuto con lui un rapporto unico. Gli devo molto. Gli ho parlato della mia malattia, mi ha consigliato moltissimo”.
Maradona incontra Fidel quando ha già perso, e largamente, la sua partita contro la cocaina: deve disintossicarsi, si reca a Cuba per la prima volta nel 1987, ma ci tornerà per combattere la sua battaglia contro la dipendenza. Fidel disse di lui: ‘Sei il Che Guevara dello Sport’, e per celebrare l’amicizia con Cuba Diego si tatuò sia il combattente argentino sia Fidel sul braccio, in onore della rivoluzione del ’59.
Non è l’unico politico che ha appoggiato pubblicamente: è stato spesso ospite di Chavez in Venezuela (dove ha anche parlato in un immensa manifestazione contro Bush), ma ha sostenuto anche Maduro, Dilma e Lula in Brasile, Daniel Ortega in Nicaragua, Morales in Bolivia (che ha scritto di lui “Non solo il calcio mondiale piange per lui, ma anche i popoli del mondo”) e Pepe Mujica in Uruguay, che si è tagliato lo stipendio per vivere da “proletario”.
Tutti socialisti, rivoluzionari, leader proletari che per Maradona hanno portato avanti le istanze degli ultimi. Di fatto Maradona è sempre stato un militante: prima giocando a calcio, poi diventando un testimonial della rivoluzione, delle promesse, degli ideali anti-capitalisti nel mondo. Non solo un testimonial, prestando il suo viso e la sua fama illimitata, ma proprio un apostolo, un evangelista di una religione rossa. Gli altri credevano in Diego come Dio, lui credeva nella rivoluzione e nella lotta proletaria. Tra molte critiche ha perfino regalato una maglietta ad Ahmadinejad. Il nemico del mio nemico è mio amico, si potrebbe dire: ne avrebbe appoggiato la retorica anti-americana.
La politica secondo Diego Armando Maradona, la ‘mano de Dios’ contro gli inglesi
Messico 1986, anche il suo gol più famoso – nella partita in cui segnò anche il più bello della storia – ha un tocco rivoluzionario. Diego lo legge così: è un segno di rivalsa quel tocco di mano che beffa Shilton nel match dei Mondiali contro l’Inghilterra, che gli diede uno dei suoi soprannomi più fortunati, la ‘mano de Dios’ (se lo diede da solo, in qualche modo).
Gli inglesi, per Maradona simbolo dell’imperialismo, sono stati coinvolti qualche anno primo (nel 1982) nella guerra aerea delle Falkland/Malvinas, risolvendo con la violenza una controversia territoriale. Inaccettabile per il senso di giustizia di Diego Maradona. Nel documentario di Kusturica su di lui, il ‘Pibe de Oro la chiosa così: “Quel gol è stato come rubare un portafogli ad un inglese”.
Politica e Maradona, contro i potenti del calcio
Canta Manu Chao in ‘Vida Tombola’ che “Si yo fuera Maradona/ Saldría en mondovision/Para gritarle a la FIFA/Que ellos son el gran ladrón!”, e non ha bisogno di traduzioni. Celebre l’avversione personale di Maradona per Blatter, storico n.1 della Fifa, che “come altri burocrati non ha mai giocato a calcio”. Blatter sarà coinvolto poi in un grosso scandalo, e dovrà lasciare. A volte la storia dà torto e ragione.
Non solo, Maradona ha dato anche una lettura politica della sua squalifica per doping dopo i Mondiali del 1990 in Italia. L’Argentina di Diego rovina le ‘notti magiche’ italiane vincendo proprio nel suo San Paolo, con un suo gol. Secondo la ‘mano de Dios” Matarrese, n.1 della Federazione italiana, “un mafioso, aveva concordato la finale Italia-Germania”.
Per quello poi fu controllato, e risultò positivo al doping con Caniggia. E “dopo di noi, nessun altro in Italia ha mai preso nemmeno un’aspirina”. Non ci sono poteri buoni per Maradona: è felice di aver portato “una squadra del Sud a rifilare 6 gol ad Agnelli”, perfino le sue partite contro la Juventus diventano un manifesto proletario, la voglia del Sud povero e lasciato solo di assaltare lo strapotere del Nord capitalista.
“Voglio diventare l’idolo dei ragazzini poveri di Napoli, perché sono come ero io a Buenos Aires”, diceva, ed è diventato il punto perfetto di unione politica e sociale tra il calcio giocato nella polvere, la voglia di rivalsa di chi è sottomesso, la fragilità del povero innalzato ‘ad un ruolo difficile da mantenere”, per dirla alla Dalla. Che non ha pensato a Maradona politico, ma avrebbe potuto, quando ha scritto: “E il povero come un lampo nel cielo, sicuro, cominciò una guerra per conquistare, quello scherzo di terra, che il suo grande cuore doveva coltivare”. Un lampo nel cielo, il sinistro tutto a sinistra di Diego Armando Maradona.